Il nostro Natale era anzitutto un lungo viaggio in un’automobile carichissima di valigie e sacchi neri pieni di regali. Non si sa bene come, ma noi bambini arrivavamo sempre alla macchina che era già strapiena e senza farci troppe domande, mio fratello ed io ci agitavamo negli scomodi sedili posteriori tra una coperta e un cuscino, molti libri, le lucette per leggere, un game boy carico e qualche scorta di cibo sfizioso che gestivamo con cura. Cinque minuti dopo la partenza, che puntualmente avveniva ore dopo l’orario prestabilito, eravamo già fermi dalla panettiera a prendere pane e focacce per il viaggio. Ricordo poi che le ore di macchina trascorrevano in un clima armonioso. I litigi tra noi due fratelli si facevano sempre più lievi mano a mano che crescevamo e, benché i nostri genitori avessero senz’altro le loro difficoltà, eravamo molto contenti di partire.
La prima tappa solitamente avveniva in Svizzera, la quale sembrava non finire mai. Ci si fermava ai piedi del monte San Gottardo: cioccolata montagne e aria pulita prima di affrontare il lungo tunnel. Poi, come entravamo in Francia mio padre si faceva tutto contento e, ogni anno, puntualmente esclamava: “d’ora in avanti si parla solo in francese!” Noi storcevamo il naso sempre pronti a fare storie ma in realtà ci piaceva molto vivere questa identità doppia, che dava accesso a due mondi diversi così vicini eppure così lontani tra loro. Ho capito solo con gli anni quanto lo avessi dato per scontato, ogni esistenza è radicalmente unica e irripetibile e al contempo intessuta di esperienze comuni, fatte di volti, di sguardi, di tatto, di gusto, di essere umano.
Arrivavamo a Metz, vicino al confine nord-occidentale con la Germania e il Lussemburgo, la sera tardi, o a notte fonda. La nonna, da buona vergine, aveva premurosamente organizzato ogni cosa, lasciandoci un pasto caldo e qualche luce accesa nella grande casa circondata dalle strade e dai giardini innevati. Da quando mi sono trasferito vicino a Bologna ai piedi dei colli, come arrivano le piogge e i primi freddi, ritrovo lo stesso clima umido e pulito di quelle strade dell’infanzia europea. Era veramente magico arrivare in garage, risalire le scale silenziosamente immaginando la casa piena di cugini addormentati. Non sapevamo mai con esattezza chi ci sarebbe stato, essendo una famiglia molto numerosa e i cugini molto giovani. L’unica a sapere sempre tutto era la nonna Colette, che dirigeva la famiglia come fosse stata una grande azienda in cui doveva funzionare tutto alla perfezione. Lo faceva però con la stessa passione e con lo stesso amore con cui dirigeva il coro della chiesa del quartiere, la stessa in cui fui battezzato il giorno di Natale del 1995 e in cui celebrammo il suo funerale, in tanti, anni dopo.
Il Natale era questa grande casa, piena dell’entusiasmo delle feste e dell’abbondanza, in cui mi sentivo protetto e al sicuro, cullato dagli ampi spazi e dai tappeti, il camino e l’altissimo albero di Natale che campeggiava in salotto. Il Natale erano i parenti, i cugini piccoli e quelli più grandi che venivano da diverse parti del mondo, chi dall’Africa e chi da qualche parte della Polinesia dove aveva lasciata ormeggiata una barca a vela. Ricordo soprattutto questo grande giardino innevato e le impronte sulla neve intonsa la sera del 24 Dicembre; noi bambini che guardavamo sotto dai balconi, sicuri che fossero proprio le orme di Babbo Natale. Mio nonno veniva da un altro tempo, nato nel 1914 era stato minatore, ufficiale nella marina e ingegnere ferroviario. In pensione aveva studiato teologia. In generale avevo molta stima per lui e simpatizzavo con il suo interesse per la filosofia e le sue storie sulla guerra. Amavo il suo ufficio così formale ma allo stesso tempo così accogliente, con le poltrone morbide su cui affondarmi e parlare con lui. Lo vedevo come un nonno e basta e fin che era ancora in forma era lui a vestirsi da Babbo Natale. Aveva il fisico giusto; gli bastavano un cappello, un vestito rosso e una barba bianca per convincerci tutti. Si sedeva su una sedia altissima e ci chiamava uno a uno leggendo le etichette degli innumerevoli regali, che erano apparsi sotto l’albero in un momento imprecisato della cena nonostante noi bambini cercassimo di vigilare a turni per non perdere il momento fatidico. Ci sedevamo sulle sue gambe e in perfetto stile fiabesco ci chiedeva se eravamo stati bravi o meno distribuendo doni. Poi veniva il momento in cui li aprivamo, che amavo moltissimo, e che mi sono portato dentro per anni anche dopo l’infanzia. Cominciavamo a giocare e creare mondi immaginari tra le richieste di attenzione dei parenti più lontani che si incontravano più raramente. Era soprattutto il fatto che fossimo tutti riuniti li, con il camino acceso, a rendermi felice. Benché fossi un po’ egoista, concentrato sulle mie navi pirata giocattolo, amavo molto supportare i più grandi per dare una sistemata e servire le indicazioni della nonna affinché tutto si svolgesse al meglio. Trascorrevamo la serata in questa atmosfera gioiosa che coinvolgeva adulti e bambini, ognuno con i propri regali o con la felicità di ritrovarsi almeno una volta all’anno tra cugini e fratelli che erano stati una volta bambini insieme.
Poco prima della mezzanotte, le zie cominciavano a radunare tutti e insieme ci recavamo a piedi verso la chiesa per la messa di Natale. Non capivo tutto, ed ero anche un po’ saturo per via delle messe della domenica di S.Ambrogio a Milano. Ricordo però un sentimento spirituale di amore. Ci avevano spiegato a catechismo come si potesse viverlo attraverso la preghiera, ma non avevo capito bene cosa volesse dire. Ricordo bene che la sera, quando mi mettevo a letto, spesso mi rivolgevo a questo crocifisso che avevo davanti e che sentivo come un tramite verso un’intelligenza impersonale e molto accogliente. Se dovessi tradurre, a distanza di anni, alcuni vissuti interiori che allora esprimevo con parole invisibili che non ricordo, si trattava di un senso di gratitudine per averLo incontrato, per avermi dato la consapevolezza di potermi rivolgere a Lui. Vivevo la messa di Natale in uno stato d’animo simile, con la mente distratta dal sonno e dai regali da una parte, dalle musiche e dai canti, dalle strette di mano in segno di pace dall’altra. Ricordo che rientravamo a casa contenti, pensando ai dolci e al clima armonioso in cui eravamo immersi, immaginandomi le passeggiate nella neve dei giorni successivi, i botti di capodanno e le cene a casa degli zii preferiti ad ascoltare musica degli anni ’70 e a parlare, non si sa bene di che, per ore con il caminetto acceso.
Non ero consapevole di tutti gli sforzi che gli adulti facessero per ricreare questo clima, forse anche perché loro stessi lo facevano con gioia sincera, nonostante tutto, nonostante non fossero tutti nello stesso benestare economico, nonostante le morti premature avvenute nel corso degli anni, nonostante non fossero tutti in ottimi rapporti tra di loro. Credo che ci mettessero amore, almeno questo era quello che percepivamo noi bambini, e che credessero in valori famigliari assorbiti nel tempo che noi davamo per scontati ma che tali non erano per moltissime altre persone. Lo spirito amorevole del Natale, nei ricordi, è soprattutto questo stato di comunione famigliare, in un ambiente protetto in cui le persone si prendevano reciprocamente cura di sé: nostra nonna, che ci riuniva tutti e che non dimenticava nessuno, nemmeno i numerosi figli dei suoi numerosi nipoti; le chiacchierate con un nonno molto vecchio sulla sua poltrona; un grande albero di Natale, tanti volti, le foto di gruppo; i film mentre gli adulti cenavano, un cane con la lingua sporca che sembrava la tata di Peter Pan e le discese con il bob lungo sulle colline innevate.
Niccolò