Swami Shivananda

La voce dell’eterno parla nel profondo del tuo cuore. Risvegliati! Tu sei lo Spirito Immortale sempre Beato. TAT-TWAM-ASI”. La storia ha visto succedersi, santi e profeti che hanno praticato e insegnato vari metodi per accostarsi alla Meta Suprema della Realizzazione Spirituale. Uno di essi è stato indubbiamente Swami Shivananda, che può essere considerato il profeta di quello che egli stesso definì “Lo Yoga Integrale”, nel quale seppe coniugare il meglio di tutti gli insegnamenti. Egli asseriva infatti l’importanza di una sintesi tra le varie forme di Yoga e della loro costante applicazione nella vita quotidiana: “ Non è sufficiente praticare un solo tipo di disciplina spirituale, quantunque bene ti sforzi di farlo: ogni aspirante dovrebbe incorporare nel suo programma spirituale tutte le tecniche di tutti gli yoga o modi di accostarsi a Dio”.

Shivananda nacque a Pattamadai, nel Tamil Nadu, nel 1887. Suo padre, Sri Vengu Iyer, uomo devoto e conoscitore dei testi sacri indù, era discendente di Sri Appaya Dikshitar, un grande santo vissuto in India nel XVII sec.

Studiò presso il Tanjore Medical Instutute, dove si laureò in medicina. Si spostò in seguito in Malesia e vi lavorò come medico, ma nel 1923 iniziò il suo pellegrinaggio spirituale che lo condusse ad abbandonare la sua professione e ad abbracciare la vita di un mendicante alla ricerca della verità.

Viaggiò per gran parte del subcontinente indiano, visitando luoghi sacri e seguendo gli insegnamenti dei Maestri che incontrò. Nel 1924 si recò a Rishikesh e fu iniziato al Dashnami Sannyasa da Swami Vishananda Saraswati. Seguendo con impegno e rigore la pratica spirituale, e con l’aiuto e l’amore del suo Maestro, Shivananda giunse quindi alla realizzazione, l’esperienza della perfetta liberazione dalla sofferenza e dal totale assorbimento nella Beatitudine di Dio. Nel corso della sua vita ha fondato ospedali, centri e accademie, ha guidato migliaia di discepoli e aspiranti, è stato autore di oltre 300 opere e ha contribuito alla diffusione dello yoga su scala planetaria.

Ecco come lo descrive Mircea Eliade nel suo “Diario Indiano”: “Swami Shivananda, uomo del Sud, è alto, con spalle larghe, molto scuro di pelle e felice come un francescano; segue il sadhana vedantico e ride spesso; si era conquistato l’amicizia dei notabili europei di Singapore dove ha praticato la medicina per 10 anni. Aveva 35 anni quando ha perduto la moglie e un figlio – allora ha lasciato tutto ed è partito a piedi verso l’Himalaya, dormendo ai margini della strada, mangiando dove capitava, mendicando di porta in porta. E’ stato malato per due anni – reumatismo e malaria – ma è guarito grazie allo yoga. Oggi è felice, non esistendo per lui né dolore né morte né separazione, giacché il dualismo è apparente e la sola realtà è il Brahman-Atman, unico e identico nell’uomo e nel Cosmo. Il vecchio motivo delle Upanishad, sorprendente però quando lo si incontra realizzato e messo a frutto in un uomo di scienza del XX secolo”.

Paradossalmente, Shivananda era sia un bhakta (devoto), sia uno jnani (saggio), sia uno yogin, ma la sua devozione non gli impediva di meditare e studiare il Vedanta. Preferiva l’approccio dello Yoga integrale senza mai promuovere un sistema a scapito dell’altro, perseguendo lo sviluppo armonioso dell’essere. Seppe fondere saggezza e azione, non concedendo al praticante di rinunciare al mondo e isolarsi rigidamente, e definì il karma yoga come la pratica del vedanta o del bhakti. Inoltre non considerava l’Unità Vedantica come un concetto teorico, bensì sperimentava quotidianamente la realizzazione dinamica dell’aspetto spirituale. Viveva di fatto la Vita Divina, non rinunciava all’esistenza ma trasfigurava la vita illuminandola della luce di Dio.

Oltre alle asana e al pranayama che praticava sistematicamente, attribuiva un’importanza notevole al karma yoga, ossia al servizio disinteressato, all’azione spontanea, non-volitiva. Egli enfatizzava quella che chiamava la “generosità spontanea, trabocchevole” e metteva a disposizione di chiunque ne avesse bisogno ciò che possedeva. Dare agli altri rappresentava la sua più grande gioia e spesso ripeteva ai suoi discepoli: “Quando c’è un povero o un malato alla tua porta, al quale hai l’opportunità di prestare aiuto, sappi che è Dio stesso che è venuto in quella forma per darti la possibilità di servirLo”.

Era sempre molto tollerante e comprensivo con i suoi discepoli, ma una cosa su cui non transigeva era la pigrizia. Questo era uno dei pochi motivi che poteva spingerlo ad allontanare qualcuno dall’ashram. Sosteneva che il corpo era uno strumento che andava utilizzato e dal quale bisognava trarre il massimo prima di abbandonarlo.

Nei primi tempi dell’ashram, guidava un campeggio yoga di una settimana, al quale partecipavano persone provenienti da ogni parte del mondo. Alcuni erano magistrati, altri ufficiali di polizia, oppure uomini d’affari, ma nell’ashram tutti erano trattati come semplici aspiranti spirituali. Poteva succedere che una mattina Shivananda annunciasse: “Oggi è karma yoga. Su, siamo tutti spazzinipuliamo le strade”. E non esistevano distinzioni. Lui stesso stava in prima fila.

Apriva le porte del suo ashram a tutti, senza interrogarli mai sul loro passato né su eventuali progetti futuri: si limitava a soddisfarne i bisogni. Era sempre attivo nel servire gli altri, anche quando le sue condizioni di salute erano critiche, e non giudicava mai chi non seguiva il suo esempio. Infatti, non soltanto era incapace di individuare il male nelle persone, ma possedeva una capacità di perdono illimitata. A questo proposito, una volta impedì che fosse arrestato un uomo che aveva cercato di ucciderlo. Raggiunse un compromesso con la polizia e riuscì ad ottenere che l’uomo venisse rimandato nel suo paese. La mattina della partenza, Shivananda si recò da lui con una ghirlanda di fiori e un vassoio pieno di frutta, libri e denaro. Inghirlandò l’uomo, lo nutrì e lo adorò, prostrandosi ai suoi piedi, quindi affermò: “E’ Dio stesso che mi ha visitato nelle sembianze del mio carnefice. Le ragioni mi sono ignote e solo a Lui appartengono”.

Tra le varie forme di yoga che praticava ed insegnava c’erano il vibhuti yoga, che è lo yoga delle manifestazioni e della gloria di Dio, e il namaskara yoga, cioè lo yoga delle umili prostrazioni. Quest’ultimo implica il rifiuto di qualsiasi lettura gerarchica della realtà e il chinarsi davanti a tutti gli esseri, animati e non, per annientare l’ego e ottenere la serenità della mente e la

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purezza del cuore. Shivananda si sforzò sempre di trasmettere agli aspirati la naturale umiltà che lo contraddistingueva. Egli non imponeva una particolare disciplina, insegnava esclusivamente mediante “l’esempio”, e mostrava quotidianamente come si trascorre un’esistenza divina cercando di risvegliare negli altri la capacità di vedere Dio in tutti e in tutto.

Accordava grande importanza alla ripetizione dei mantra, che doveva avvenire continuamente, soprattutto durante le normali attività di ogni giorno, trovando il giusto equilibrio tra “lavoro e adorazione”. A Rishikesh c’era un andirivieni di giovani e anziani che formulavano la stessa domanda: “Desidero praticare lo yoga; voglio condurre una vita spirituale. Qual è la prima cosa da fare?” Invece di dilungarsi con splendide teorie su Dio o sul Sé, Shivananda rispondeva: “Ripeti Ram Nam, ripeti il nome di Dio” , oppure “Ti darò un mantra. Ripetilo giorno e notte”.

Persone diversissime per nazionalità, temperamento, aspirazioni e bisogni si prostravano ai suoi piedi in cerca di comprensione e sollievo dai problemi. In pochissimo tempo consolava l’afflitto, rincuorava un novizio, mostrava il pranayama ad un aspirante, faceva un cenno col capo e ringraziava alla maniera inglese, congiungeva le mani e salutava come un Indiano, chiudeva gli occhi e contemplava come un supremo anacoreta, ed infine rideva e faceva ridere gli altri con il suo contagioso umorismo. Dal suo cuore sgorgava un unico amore, ma variavano le espressioni conformemente a chi le doveva ricevere. Sta di fatto che ognuno riceveva ciò di cui aveva bisogno. Spesso gli venivano sottoposti dei problemi assurdi, eppure egli riusciva sempre a donare comprensione e a comportarsi nella maniera più congrua al caso specifico. Poteva parlare con la dolcezza di una madre amorevole e mezz’ora dopo tuonare “Rinunciate al mondo che non vale una pagliuzza. Svegliatevi!”. Cambiava ancora offrendo adorazioni nel Gange ed era un altro nel giorno dell’iniziazione dei discepoli nel Sannyas. In questo frangente non lo si poteva toccare e nemmeno avvicinare. Gli stessi aspiranti non erano in grado di fissare lo sguardo troppo a lungo sulla forma divina del Maestro senza cadere in estasi.

Chi aveva la fortuna d’incontrarlo godeva di vibrazioni curative ed emanazioni di luce colme di pace. Bastava il suo sguardo ad elevare, trasformare e rendere sublime ogni cosa sulla quale si posasse. La divinità gli aleggiava intorno: le tenebre dell’ateismo e della mondanità sparivano in un cuore rapito dalla grazia di Shivananda. Benché possedesse poteri sovrannaturali, egli non li ammise mai apertamente, anzi li negava con puntiglio ad ogni occasione, affermando: “Il Signore sta operando questi miracoli per suscitare la fede in un numero sempre maggiore di cuori”. Egli considerava i miracoli e i poteri psichici alla stregua del più insidioso degli ostacoli da superare, e avvisava gli aspiranti spirituali di diffidarne.

La filosofia di Shivananda poteva riassumersi così “Conoscete Dio attraverso le sue opere”. “Conosci l’albero dai suoi frutti” era il criterio che egli applicava a se stesso, agli altri e ad ogni cosa di questo mondo. “Come pensi così diventi. L’uomo diventa quello che pensa. Questa è una delle più grandi leggi della natura. Se pensi di essere un uomo, diventi un uomo. Se pensi di essere Brahman, diventi Brahman. Diventa un’incarnazione della bontà. Fai sempre delle buone azioni. Servi. Ama. Dai. Rendi felici gli altri. Soltanto allora sperimenterai la felicità.”

Shivananda entrò in mahasamadhi nel 1963.

Insegnante Yoga Nelsi Zavarelli

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