Umiltà

«La vanità ha così profonde radici nel cuore dell’uomo che un soldato, un servo di milizie, un cuoco, un facchino si vanta e pretende di avere i suoi ammiratori; e gli stessi filosofi ne vogliono. E coloro che scrivono contro la vanagloria aspirano al vanto di aver scritto bene; e coloro che li leggono, al vanto di averli letti; e io, che scrivo questo, nutro forse lo stesso desiderio; e coloro che mi leggeranno forsanche». (Pascal, Pensieri)

Quando sono entrata in contatto con la Scuola Satyasvara e con il Maestro uno degli aspetti che mi ha colpito più profondamente di questo gruppo di persone è stata l’umiltà, la semplicità, la franchezza, la leggerezza e la mancanza di impostazione che tra loro si potevano respirare. Non è facile da descrivere come sensazione e sulle prime mi ha lasciato veramente stupita, perché non conoscevo altri contesti spirituali o luoghi in cui si affrontasse un certo tipo di percorso interiore, ma avevo il pregiudizio di trovarmi davanti molta più rigidità, artifici e sovrastrutture, anche se di natura spirituale. Invece, quello che ho incontrato è stata una forma di genuinità che in certi momenti era anche divertente, e che si univa sempre allegramente con l’intensità di un percorso vero di evoluzione interiore, conoscenza e superamento di sé. Per me è stato un nuovo inizio, in un contesto molto diverso da quello in cui provenivo, molto diverso nelle parole, nei comportamenti, e nelle atmosfere, ma che anche se sulle prime mi creava a volte un senso forte di estraneazione e disorientamento, mi cominciava a nutrire immensamente in modo sottile con la pace, il silenzio, l’abbandono e la mitezza che vi incontravo ogni volta. Sentivo che era così, sentivo che era vero in questa sua semplicità, anche se l’alfabeto di partenza era molto distante.

Credo quindi che l’umiltà, intesa come forma di purificazione, sia stata una delle cose che più mi ha attratto di questa scuola, perché percepivo che si trattava di un luogo avvolto da una forma di purezza che permetteva di lavorare alla radice di molte dinamiche interiori, e dove si lasciavano perdere molte astrattezze teoriche per generare la possibilità reale di un cambiamento e di un’evoluzione profonda di sé. Non che le astrattezze teoriche non vadano bene, in realtà il mio percorso proveniva da anni di studio e ricerca teorica e domande e discriminazioni che mi avevano nutrito tanto nel profondo. Quando però ho incontrato questa scuola è stato come sperimentare uno stato di sollievo interiore, trovare un punto di partenza concreto in cui prendeva vita quello che avevo sempre cercato intellettualmente, e in cui sentivo e respiravo la possibilità di un nutrimento vero fortissimo, tanto semplice nella forma e non pretenzioso, ma vero, reale, possibile. In questo senso per me abbandonarsi a questo ricominciamento, lasciare andare le molte strutture mentali costruite fino a quel momento, non è stato facile, e non lo è ancora. Ci vuole infatti tanta umiltà se si vuole davvero stare con sé stessi e predisporsi a un cambiamento, a un’evoluzione effettiva, aldilà delle parole e della loro ridondanza. L’umiltà di un percorso di ricerca interiore è qualcosa di molto concreto, minuzioso e quotidiano, sta tutta nell’imparare a conoscersi e migliorarsi con presenza in ogni situazione, cercando di tutelarsi e giustificarsi di meno e agendo invece sulle mancanze, i difetti, le parti d’ombra, con accettazione e amore e responsabilità sempre crescenti. Se a parole sembra semplice, scegliere però l’attitudine di provarci realmente è qualcosa di molto raro, ed è quello che ho trovato in questa scuola, raro perché la mente non accetta con piacere il lasciare andare le sue infinite resistenze, le opinioni certe con cui si identifica, i pregiudizi, i cattivi pensieri, le prese di distanza teoriche, le emozioni spesso automatiche che vorrebbero lo scontro e la contrapposizione. Umile è quindi la via spirituale che insegna l’abbandono dei propri attaccamenti mentali, che porta alla rinuncia dell’ego, alle sue continue maschere, rappresentazioni, ai giudizi che sempre ci impone, e alla sua brama di realizzazione esterna, per generare uno stato sempre maggiore di nudità, fede e purezza in cui ricontattiamo la sorgente viva della nostra anima.

Ricordo le impressioni che ho provato le prime volte stando col Maestro, uno stato come di silenzio assordante, di luce, calma e accoglienza, in cui percepivo fortissime le resistenze interne a fidarmi della situazione, ma di sottofondo si iniziava a espandere qualcosa, e iniziava a nascere in controluce una gioia enorme di poter ricominciare a vivere e amare. E ho sentito l’umiltà dell’abbandono e della presenza forte del momento che veniva vissuto. È noto che ogni tradizione spirituale e tutte le forme di sapienza antiche inseriscono questo valore fra le più importanti attitudini da sviluppare dell’animo umano, ma questo non solo in quanto l’umiltà è una virtù morale, ma anche perché in essa risiede il segreto della più alta forma di conoscenza, in cui non c’è più attaccamento verso quanto è stato conosciuto, non c’è più pretesa, arroganza, e brama di possedere e acquisire potere attraverso il raziocinio, e l’attività mentale smodata. In quello stato, non c’è ostentazione e frenesia ma calma e presenza, coscienza quieta dei confini delle cose e di sé stessi, della transitorietà di ogni momento, della piccolezza della nostra persona. Umiltà è una forma di presenza, di quell’intelligenza che smette di ricercare ossessivamente e di aggrapparsi a quel tipo di sicurezza, e resta nella semplicità indivisa del momento presente, sa stare nel vuoto e nella perdita, sa accettare col cuore, sa sempre di non sapere quasi nulla di quello che in realtà è. Tutto ciò fa abbastanza paura e in certi momenti suona difficile da digerire. Personalmente incorro spesso purtroppo nella mancanza di umiltà e nel difetto opposto, ed è una cosa su cui devo tanto lavorare. C’è una parte egoica in me che conosco bene, che aspira freneticamente ad essere riconosciuta dagli altri, ad aver ragione, è come una forma di altezzosità a livello intellettuale, che a volte è aggressiva, giudicante e superba, ed è come uno specchio costante di sé stessi, una parte che vuole un ritorno e un guadagno su ogni cosa a discapito degli altri… è l’ego che vuole riconoscimento, fama, potere e centralità. L’ego infatti non sopporta l’umiltà, la chiama ignoranza e la guarda dall’alto, ma l’anima che sente in realtà vi aspira, e vi aspira perché ci sente la verità, la purezza e la giustizia… il dolore del giudizio che infliggiamo agli altri e a noi stessi in continuazione, le ferite che i pensieri generano il più delle volte senza che ce ne rendiamo conto.

È molto raro nella nostra società che si dedichi attenzione a coltivare maggiormente questa disposizione, e a volte capita che veniamo rimproverati della sua mancanza senza capirne anche bene il motivo. Da una parte credo che questo sia dovuto al fatto che vengono promossi altri tipi di interessi, la ricerca dell’affermazione, la competizione e la riuscita ma credo anche che in parte la causa la si trovi nel senso comune che intende l’umiltà in senso di umiliazione e mortificazione personale, e allora se ne allontana. Così infatti la giudica l’ego, perché ne teme gli effetti su di lui. Su questo Dewey scrive: «Ci vuole più umiltà nei nostri momenti di successo che non in quelli di sconfitta. Difatti l’umiltà non è un volgare disprezzo di sé: essa è il senso della nostra misera incapacità di comandare gli eventi». A volte infatti per grazia ci rendiamo conto di quanto in realtà possiamo fare poco, dei limiti e della fine che ci abitano dentro, ma se impariamo a lasciarci andare a questo stato, che in certi casi somiglia a vivere uno stato di morte, allora sentiamo che siamo più vicini alla verità di ogni altro momento, e che c’è qualcosa che da quel punto aperto ci viene incontro, ci cambia dall’interno perché ora ci trova disponibili ad un ascolto maggiore. Questo flusso abbandonato è la natura stessa della vita. Nell’umiltà che il divino ci insegna piano piano ritorniamo sul cuore, lì dove risiede la legge eterna e ogni vera conoscenza. «Non tocca a me giudicare la vita di un altro. Solo per me, per me solo devo giudicare, devo scegliere, devo scartare». (Hermann Hesse)

Clara

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