Verso le cime del Redentore – Pizzo del Diavolo (10 Ottobre 2020)

Ieri c’è stata una nuova escursione con la scuola di yoga sui Monti Sibillini. Come al solito non sono mancate avventure, momenti difficili che sono stati superati con il sostegno del Maestro e attimi e condivisioni di esperienze tra di noi. Tra questi c’è stata una bella conversazione tra me e Adriana, mentre si saliva sul sentiero per arrivare alla prima cima, da cui poi abbiamo proseguito cresta cresta fino alla cime ultime del Redentore e di Pizzo del Diavolo (l’escursione a cui Immacolata non ha partecipato perché a Bologna a cambiato treno ed è tornata a Milano).

Entrambi siamo appassionati di musica, come tanti nella scuola, e ci piace realizzare delle composizioni. Proprio partendo da questa esperienza comune abbiamo condiviso le emozioni che singolarmente proviamo nel momento in cui si suona senza un secondo fine, lasciandosi andare solamente alla musica. In questo momento è come stare sulla cresta di un’onda, si percepisce, lasciandosi andare a questo flusso, un collegamento con una realtà sottile ed eterea che si rivela tramite la grazia della musica. Inoltre questo attimo lo paragono ad un momento d’amore e d’intimità, simile alla gioia in cui si contempla un panorama speciale, in cui si è realmente in contatto con i propri sentimenti più profondi e belli. E questo avviene quando si suona solo per il piacere di suonare e senza altre finalità.

Quando invece si suona per scrivere della musica per poi riprodurla, mi accorgo del rischio che si corre nell’identificarmi con quello che sto facendo, passando da un atto d’ispirazione impersonale ad un atto di realizzazione personale. In questa fase successiva al momento d’ispirazione si agisce concretamente verso l’esterno al fine di ottenere qualcosa di tangibile, un brano per esempio, ed è su questo che l’ego vorrebbe mettere il suo marchio. Nonostante la mente crei di tutto pur di non farmi pensare a ciò che è importante in questo momento, la convinzione che quello che si sta facendo non serve a creare una propria identità personale, mi spinge a continuare. Sono convinto infatti che se fatte nel modo giusto, le realizzazioni esteriori e materiali non sono assolutamente da condannare, neanche nel caso di persone spirituali. Infatti molti saggi hanno lottato per realizzare delle opere tangibili in cui gli uomini potessero trovare ispirazione. Ognuno nel proprio piccolo può agire secondo le proprie capacità del momento allo stesso modo. L’importante è l’intenzione di servire per fare del bene, non a se stessi, ma al contesto in cui viviamo e agli altri esseri umani. Nessuno può sottrarsi a questo impegno, al proprio dovere di agire, ma si può alleggerire molto il carico attraverso un lavoro su sé stessi finalizzato agli altri. Neanche agli illuminati è concesso di vivere godendo della comodità e del piacere grazie a quello che hanno ottenuto. Il Buddha infatti, dopo l’illuminazione ha iniziato a “lavorare” alla sua dottrina per salvare gli altri dalla sofferenza. Ma non avendo più ego, non sentiva più il peso del lavoro poiché questo era diventato un servizio. Anche se difficilissimo da realizzare, ciò che siamo chiamati a fare è il servizio, perché il servizio disinteressato (Karma Yoga) ci fa sentire veramente bene e ci avvicina a Dio, a differenza del lavoro finalizzato ai propri interessi che ci fa stare male e ci rende schiavi. Perché sono gli interessi personali, l’ego a incatenarci.

Un opera è la conseguenza diretta di un sentimento d’amore che trabocca naturalmente verso l’esterno, quando non può più essere racchiuso in sé stessi ed è pronto a sbocciare. Perciò l’unico modo che ho per non identificarmi in ciò che sto facendo, come ad esempio quando suono, è ricordarmi di questo sentimento, da cui è nata l’esigenza naturale di creare qualcosa di concreto che comunichi l’amore per il Tutto, affinché possa essere condiviso con più persone possibili. Forse solo in questo modo si può trovare il fine elevato ed il senso ultimo del dovere di agire a cui non possiamo sottrarci.

Paolo

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