Restando in presenza, senza reagire, con il crollo delle certezze, dei cardini a cui appigliarsi, con il dolore che pervade tutto, senza fermarlo, sto vivendo una sensazione simile a quella di nuotare in un mare oscuro che si trova in una zona molto profonda della mia mente… mai conosciuta. In tutto questo quando sai che non si possono dare colpe, quando sai che tutto è utile e giusto, resta solo un contatto vivo con te stesso come se un’altra immagine di te si trovasse di fronte a te, e l’unica cosa che ti spinge a fare, è un profondo esame di coscienza su tutto… come se un’intera vita scorresse come un film in scene veloci, e tu sai che non puoi reagire. L’assenza di reazione provoca un’espansione enorme in cui il corpo è fermo in un luogo, ma in realtà ti stai muovendo ovunque, privo di identità e di nome. Non sono io.
Accetti di poterti perdere per sempre e sembra che il tempo sia eterno e lo spazio inizia a emettere un suono nuovo. È immenso tutto quanto. Così all’improvviso dal nulla, in condizioni assolutamente insospettabili, può apparire uno stato di malessere più o meno profondo, per lo più incomprensibile, che inizia ad espandersi paralizzando mente e corpo. Non so sinceramente se questa è una situazione diffusa, di certo è un vissuto che ha sempre fatto parte della mia vita e che non ho mai avuto la possibilità di comprendere. A volte può capitare che un flash di un ricordo spiacevole, una sensazione molto dolorosa collegata a una situazione particolare o ad una persona, può fare capolino dal nulla, mentre passeggi o lavori… mentre stai ridendo con i tuoi amici, oppure nel bel mezzo di uno stato emotivo completamente positivo e stabile. E lì arriva il dramma sotto forma di inchiostro nero che si espande in un bacino di acqua limpida, sporcandola in poco tempo e senza possibilità di arresto.
L’animo in quel momento si pervade di quell’inchiostro, lo stomaco si chiude, il battito cardiaco aumenta, le mani iniziano a sudare… di lì a poco subentrerà una confusione mentale ed emotiva della quale non se ne conosce l’origine effettiva e non si sa quanto durerà e che effetti avrà sulla propria giornata e sulle persone che ci sono accanto. A quel punto, a quello stato confusionale si sommerà una estrema paura: la paura di se stessi. Quanti di noi possono dire di potersi fidare di se stessi, dei propri pensieri, delle proprie azioni, delle proprie emozioni… beh se ci fosse qualcuno che avesse il coraggio di affermare “io” senza esitazione, proverei davvero grande ammirazione, ma anche un po’ di titubanza.
Credo che ognuno viva il proprio dramma interiore in modi diversi, ciò che però ci accomuna è che nessuno purtroppo (o per fortuna) ne è esente. Sì, perché proprio quello che temiamo di più, il nostro “mostro” interiore che vorremmo scacciare con forza, rinnegare, maledire e bandire… in realtà è il motore pulsante per la nostra evoluzione animica e personale. Immaginate di vivere una vita nella completa quiete di se stessi, che bello vero? Sì, ma poi? La prima domanda che mi porrei sarebbe: e quindi perché sono qui? se tutto va così bene, se l’acqua non si increspa mai… perché sono qui? Non so, ma senza un obiettivo evolutivo, non riesco davvero a vedere il senso dell’esistenza umana, un’esistenza creata appositamente imperfetta per avere la possibilità di crescere, di metterci alla prova, di scendere in profondità in noi stessi per capire davvero la nostra essenza divina ed umana.
Chiaramente a parole diventa tutto molto semplice, ma quando il dolore arriva reale, quando la paura ci impedisce di riconoscerci guardandoci allo specchio in uno stato di forte depersonalizzazione… in effetti poi non è proprio così semplice, o meglio la prima cosa che ci viene da dire è: Dio ti prego, allontana da me questo dolore, fammi stare meglio, ti prego. Sono stanca. La paura del dolore infatti penso sia più dolorosa del dolore stesso, ci crea ansia per il futuro e rabbia per il passato. Ho vissuto così soprattutto gli ultimi anni, facendo poi l’errore che fanno tutti: incolpare l’altro. Razionalmente aveva assolutamente senso: tu fai una cosa che mi fa stare male, ho paura di te, provo rabbia verso te, mi chiudo, soffro. Nel tempo però, soprattutto grazie alla fede e all’abbandono a Dio, ho imparato a mettere in discussione le situazioni e me stessa, iniziando quindi anche a fidarmi dei punti di vista esterni che mi venivano offerti e che prontamente rinnegavo.
A quel punto quando non hai più nessuno da incolpare, inizia una fase di paralisi… perché sfogare e arrabbiarsi ti da l’energia per andare avanti, ti fa scaricare e ricaricare, in un loop infinito che è vero che ti fa soffrire, ma ti da l’apparente speranza che poi le cose potranno prendere “la giusta piega”, possano essere fatte “come vuoi tu”. Ma quando tutto questo meccanismo cessa… inizia davvero il difficile. La sofferenza resta, anzi diventa ancora più intensa ma sotto un’altra forma, nella forma dove sei a tu per tu con te stesso, con la tua oscurità, senza un capro espiatorio, senza “quella mi ha fatto questo”, sei solo tu che inizi a guardare le enormi sovrastrutture di dolore che fanno da filtro a ogni fatto esistente della tua vita. Inizi a sentirti in uno stato di stasi riflessiva, e di paralisi dell’azione esteriore, perché ciò che inizia invece a muoversi è solo ciò che hai dentro, e non puoi fare altro che arrenderti a questo processo, alternando fede e dolore, forza e debolezza, speranza e rassegnazione. Ma fa parte del tutto, il gioco del superamento delle proprie catene funziona così, ci vuole solo tanta tanta pazienza, comprensione, lucidità e fiducia.
Mary